martedì 22 agosto 2017

“Fece il gran rifiuto”? Appunti su san Filippo Benizi e il canto III dell’Inferno di Dante

Dante raffigurato nel Chiostro Grande
della SS. Annunziata di Firenze
Il punto di partenza di questa breve riflessione non può essere che un piccolo brano della Divina Commedia di Dante Alighieri, più precisamente le terzine 58-60 del Canto III dell’Inferno:

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto
Vidi e conobbi l’ombra di colui
Che fece per viltade il gran rifiuto.

La terzina in oggetto si colloca ad un punto preciso del viaggio di Dante. Perso nella selva oscura e soccorso da Virgilio nel Canto I, Dante conosce meglio le motivazioni del suo viaggio ultraterreno nella spiegazione che la sua guida offre al Canto II. Il Canto III inizia con Dante e Virgilio dinanzi alla porta degli inferi e poco dopo s’incontra la terzina di cui abbiamo riferito. Dante si trova in una zona denominata Anti-Inferno, ossia un luogo tra la porta degli Inferi e il fiume Acheronte. In questa zona l’attenzione del poeta sarà attratta da un primo gruppo di dannati che Virgilio spiegherà come «coloro che visser senza ‘nfamia e sanza lodo» (Inferno III, 35-36). Denominati Ignavi, Virgilio dirà ancora di loro
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di loro, ma guarda e passa. (Inferno III, 46-51)

Il non prendere posizione, la vita tiepida e di conseguenza cieca e bassa è la colpa di questi dannati. Di contrappasso, coloro che non desiderarono nulla in vita nulla ricevono ora, se non un’insegna muta a cui correre dietro senza fine, pungolati da vespe, ricoperti di lacrime e vermi ai piedi. Traspare nel brano l’evidente disprezzo del poeta per quanti, nel falso miraggio di una vita tranquilla diventano «a Dio spiacenti e a’ nemici suoi» (Inferno III, 63).
In questo contesto si colloca la terzina con cui abbiamo iniziato. Tale passaggio ci dà la possibilità di apprezzare la grande tecnica letteraria di Dante. Pur dicendo degli Ignavi che essi non sono meritevoli se non di un rapido sguardo e che il mondo non lascia fama di loro, Dante dice di vedere e conoscere colui che per viltà fece il “gran rifiuto”. E così facendo restituisce un momento di fama ad uno degli ignavi e un passo dopo gliela toglie non scrivendone il nome.
Tale particolare non poteva non attirare l’attenzione dei lettori e dei commentatori successivi a Dante. Non a caso questa terzina lascia un quesito mentre nella Divina Commedia la trattazione offre continue spiegazioni e chiarimenti. La critica successiva a Dante iniziò a domandarsi sul chi fosse l’uomo del “gran rifiuto” arrivando a scorgere in papa Celestino V, già Pietro da Morrone (+1296), la figura più probabile in merito. Tale spiegazione sta non soltanto nella rinunzia al pontificato di Celestino V il 13 dicembre 1294 dopo pochissimi mesi dall’elezione ma anche nella critica serrata che Dante fa nei confronti del successore, Bonifacio VIII (+1303), al secolo Benedetto Caetani. Critica che sfocia in condanna aperta nel canto XIX, quando non potendo collocare all’Inferno papa Bonifacio VIII perché ancora vivente, ne fa predire ad un’anima dannata, papa Niccolo III (+1280) al secolo Giovanni Gaetano Orsini, la dannazione e il supplizio nella terza bolgia dell’Ottavo cerchio dove si trovano i Simoniaci. E per non lasciare dubbi, Dante fa dire a Niccolo III:

Se’ tu già così ritto
Se’ tu già costì ritto, Bonifazio? (Inferno XIX, 51-52)

Conseguentemente ci si può chiedere se l’astio e la condanna di Dante verso Bonifacio VIII non abbia una naturale estensione anche verso chi come Celestino V, attraverso la sua rinuncia o “gran rifiuto”, spianò la strada al pontificato del Caetani.
L’altra opzione circa l’uomo del gran rifiuto è Esaù figlio di Isacco e fratello di Giacobbe. Toccò al Boccaccio avanzare l’ipotesi vista anche la venerazione che si andava propagando nei confronti di Celestino V. Il “gran rifiuto” di Esaù è da inquadrare nel brano di Genesi 25-29-34, momento nel quale vende la sua primogenitura al fratello Giacobbe in cambio di un piatto di lenticchie. Cedendo in tal modo la primogenitura Esaù dimostra di tenere ben poco in conto la promessa che Dio aveva fatto ad Abramo, ed era stata rinnovata a Isacco, di una grande nazione.
Celestino V o Esaù furono a lungo le opzioni per identificare il personaggio del “gran rifiuto”. Tuttavia nell’Ottocento si assiste ad un interessante serie di nuovi nomi da accostare a questo personaggio. Tra questi spunta anche il nome di san Filippo Benizi (+1285).

Statua di San Filippo nella chiesa
della SS. Annunziata di Firenze.
Si indica in un padre dell’Ordine dei Servi di Maria, Agostino M. Morini (+1913), il primo a suggerire a suggerire che l’uomo del “gran rifiuto” fosse san Filippo Benizi. Tuttavia il centro del ragionamento può essere individuato in due articoli apparsi su «L’Addolorata» nel 1921 e curati da p. Alessio M. Rossi (+1968) [1]. In particolare nello stesso è da tener presente il resoconto di una conferenza del prof. Carlo Pacini, davanti ai giovani studenti Servi di Maria. Nel ragionamento proposto dal Pacini si sottolinea l’aspetto della conoscenza che Dante sembra avere della figura dell’uomo del “gran rifiuto”, ossia quel “vidi e conobbi”. E chiedendosi come Dante possa aver conosciuto di persona Celestino V, avanza l’idea che l’uomo del “gran rifiuto” sia in realtà una figura più alla portata della conoscenza del poeta. Approfondendo la riflessione, il Pacini indicò come per Celestino V più che un rifiuto, si deve parlare di una rinunzia al pontificato. Diversamente, per Filippo Benizi esiste un episodio di rifiuto. Nella Legenda beati Philippi, conosciuta come “Vulgata”, i paragrafi 15-16 narrano che in conseguenza di un prodigio di Filippo nel quale sanò un lebbroso, la sua fama giunse ai cardinali riuniti in conclave a Viterbo negli anni 1268-1271 e tutti furono concordi nell’indicarlo come pontefice. Tuttavia, come dice la “Vulgata”, Filippo per grande umiltà se ne stette nascosto per qualche tempo.
Anni più tardi, nel 1968 gli studi di un altro padre dell’Ordine dei Servi di Maria, Eugenio M. Casalini (+2010), hanno posto in evidenza, sulla base di documentazione archivistica dell’amministrazione del convento di Santa Maria di Cafaggio in Firenze oggi Santissima Annunziata, una serie di contatti tra la comunità dei frati del tempo e la cerchia delle amicizie politiche e familiari del poeta [2].
Detto questo però, non appare possibile sostenere l’affermazione che accosti san Filippo all’uomo del “gran rifiuto”. Anzitutto, in linea temporale ci si può chiedere come potesse il “rifiuto” di Filippo al papato avere più presa nella memoria di Dante rispetto alla “rinunzia” di Celestino V. Infatti se l’episodio che riguarda Filippo va ascritto agli anni del Conclave di Viterbo ossia 1268-1271, la rinuncia di Celestino V nel 1294 appare più vicina sia al momento in cui viene collocata temporalmente la Divina Commedia, ossia il 1300, che al momento dell’inizio della redazione vera e propria attorno al 1306-1307.
In secondo luogo, il “rifiuto” di Filippo portò solo alla prosecuzione del Conclave che terminò con l’elezione di Gregorio X (+1276), mentre la rinuncia di Celestino V aprì al pontificato di Bonifacio VIII e in prospettiva, all’appoggio di quest’ultimo alla fazione “Nera” dei Guelfi fiorentini contro i “Bianchi”, fazione di Dante stesso, costretti all’esilio.
In terzo luogo, ci si può chiedere come potesse Dante conoscere un avvenimento, quello del “rifiuto” di San Filippo circoscritto in una redazione agiografica, quella della Legenda “Vulgata”, da collocare probabilmente nella seconda parte del secolo XIV, e pertanto forse lungamente veicolato da una tradizione orale. Senza dimenticare che l’episodio stesso trascritto nei paragrafi 15-16 non è comune nei vari manoscritti che riportano la Legenda “Vulgata”.
Valga poi l’osservazione che Dante pare confinare la sua attenzione sulla vita religiosa soltanto agli Ordini dei Minori e dei Predicatori. I Canti XI e XII del Paradiso dove prima Tommaso d’Aquino, frate predicatore, e poi Bonaventura da Bagnoregio, frate minore, fanno gli elogi del fondatore dell’opposto Ordine e deprecano la decadenza dell’ordine d’appartenenza, esemplificano la centralità di questi due ordini religiosi nell’universo di Dante, mentre le altre famiglie religiose risultano di poco conto. Di conseguenza resta da chiedersi quali figure e quale influsso potesse avere un Ordine di ridottissime dimensioni, come i Servi di Maria, sulla stesura della Divina Commedia.
Resterebbe ancora la possibilità di leggere, sulla base degli scritti agiografici dei Servi di Maria, alcune azioni della vita di san Filippo sul piano della “viltà” che Dante intende in contrapposizione alla “magnanimità” dell’animo: ossia per vile si intende l’uomo che degno di compiere grandi cose, se ne ritiene non all’altezza e vi rinuncia. In tal senso una rilettura dei paragrafi 9-12, riguardo alla scoperta della grande cultura di Filippo e delle frequenti richieste di essere esonerato dall’incarico di priore Generale, potrebbe suggerire tale ipotesi. Tuttavia tali ipotesi va superata notando che lo stesso Filippo spesso sottopone la sua volontà alle preghiere dei confratelli verso i quali si piega con obbedienza.
Concludendo vogliamo ancora indicare come riferendosi ad un altro brano della Divina Commedia in cui si poteva avanzare un ipotesi di convergenza tra la descrizione dell’Annunciazione nel X Canto del Purgatorio (Purgatorio X, 34-35) e l’immagine affrescata ancora oggi visibile nella Santissima Annunziata il Casalini notava come in merito si restasse «nel campo di quelle ipotesi che senza essere puramente fantastiche hanno però il difetto di mancare di un dato sia pur minimo di concreta documentazione» [3]. Valida per l’immagine del Purgatorio, tale affermazione non risulta riapplicabile nell’ipotesi del Morini di accostare l’uomo del “gran rifiuto” a san Filippo Benizi in quanto crea ipotesi decisamente labili al confronto con le figure classiche, e decisamente più consistenti, offerte dalla critica letteraria sul tema. Di conseguenza ancora con il Casalini dobbiamo convenire «ma che Dante avesse pensato a san Filippo Benizi nella citata terzina dell’Inferno, è una congettura destinata a rimanere tale come le altre escogitate sull’argomento» [4].


fra Emanuele M. Cattarossi
albatrosm2013@gmail.com



[1] In particolare si fa riferimento a Dante e i Servi di Maria in «L’Addolorata», Firenze, 1921, pp. 44-51 e 133-135, entrambi a cura di Linix pseudonimo di Alessio M. Rossi. Lo stesso tornerà sull’argomento in un articolo dell’Osservatore Romano del 24 agosto 1951 intitolato Ancora del gran rifiuto?
[2] Si veda E. Casalini, Il convento di santa Maria di Cafaggio nella cerchia delle amicizie di Dante, «Studi Storici OSM», 16 (1968), pp. 172-196.
[3] Casalini, Il convento di santa Maria di Cafaggio nella cerchia delle amicizie di Dante, pp. 175-176.
[4] Ibidem, p. 175.