Dante raffigurato nel Chiostro Grande
della SS. Annunziata di Firenze
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Il punto di partenza di questa
breve riflessione non può essere che un piccolo brano della Divina Commedia di Dante Alighieri, più
precisamente le terzine 58-60 del Canto III dell’Inferno:
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto
Vidi e conobbi l’ombra di colui
Che fece per viltade il gran rifiuto.
La terzina in oggetto si
colloca ad un punto preciso del viaggio di Dante. Perso nella selva oscura e
soccorso da Virgilio nel Canto I, Dante conosce meglio le motivazioni del suo
viaggio ultraterreno nella spiegazione che la sua guida offre al Canto II. Il
Canto III inizia con Dante e Virgilio dinanzi alla porta degli inferi e poco
dopo s’incontra la terzina di cui abbiamo riferito. Dante si trova in una zona
denominata Anti-Inferno, ossia un luogo tra la porta degli Inferi e il fiume
Acheronte. In questa zona l’attenzione del poeta sarà attratta da un primo
gruppo di dannati che Virgilio spiegherà come «coloro che visser senza ‘nfamia
e sanza lodo» (Inferno III, 35-36).
Denominati Ignavi, Virgilio dirà ancora di loro
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di loro, ma guarda e passa. (Inferno III, 46-51)
Il non prendere posizione, la
vita tiepida e di conseguenza cieca e bassa è la colpa di questi dannati. Di
contrappasso, coloro che non desiderarono nulla in vita nulla ricevono ora, se
non un’insegna muta a cui correre dietro senza fine, pungolati da vespe,
ricoperti di lacrime e vermi ai piedi. Traspare nel brano l’evidente disprezzo
del poeta per quanti, nel falso miraggio di una vita tranquilla diventano «a
Dio spiacenti e a’ nemici suoi» (Inferno
III, 63).
In questo contesto si colloca
la terzina con cui abbiamo iniziato. Tale passaggio ci dà la possibilità di
apprezzare la grande tecnica letteraria di Dante. Pur dicendo degli Ignavi che
essi non sono meritevoli se non di un rapido sguardo e che il mondo non lascia
fama di loro, Dante dice di vedere e conoscere colui che per viltà fece il
“gran rifiuto”. E così facendo restituisce un momento di fama ad uno degli
ignavi e un passo dopo gliela toglie non scrivendone il nome.
Tale particolare non poteva non
attirare l’attenzione dei lettori e dei commentatori successivi a Dante. Non a
caso questa terzina lascia un quesito mentre nella Divina Commedia la trattazione offre continue spiegazioni e
chiarimenti. La critica successiva a Dante iniziò a domandarsi sul chi fosse
l’uomo del “gran rifiuto” arrivando a scorgere in papa Celestino V, già Pietro
da Morrone (+1296), la figura più probabile in merito. Tale spiegazione sta non
soltanto nella rinunzia al pontificato di Celestino V il 13 dicembre 1294 dopo
pochissimi mesi dall’elezione ma anche nella critica serrata che Dante fa nei
confronti del successore, Bonifacio VIII (+1303), al secolo Benedetto Caetani.
Critica che sfocia in condanna aperta nel canto XIX, quando non potendo
collocare all’Inferno papa Bonifacio VIII perché ancora vivente, ne fa predire
ad un’anima dannata, papa Niccolo III (+1280) al secolo Giovanni Gaetano Orsini,
la dannazione e il supplizio nella terza bolgia dell’Ottavo cerchio dove si
trovano i Simoniaci. E per non lasciare dubbi, Dante fa dire a Niccolo III:
Se’ tu già così ritto
Se’ tu già costì ritto, Bonifazio? (Inferno XIX, 51-52)
Conseguentemente ci si può
chiedere se l’astio e la condanna di Dante verso Bonifacio VIII non abbia una
naturale estensione anche verso chi come Celestino V, attraverso la sua
rinuncia o “gran rifiuto”, spianò la strada al pontificato del Caetani.
L’altra opzione circa l’uomo
del gran rifiuto è Esaù figlio di Isacco e fratello di Giacobbe. Toccò al
Boccaccio avanzare l’ipotesi vista anche la venerazione che si andava
propagando nei confronti di Celestino V. Il “gran rifiuto” di Esaù è da
inquadrare nel brano di Genesi
25-29-34, momento nel quale vende la sua primogenitura al fratello Giacobbe in
cambio di un piatto di lenticchie. Cedendo in tal modo la primogenitura Esaù
dimostra di tenere ben poco in conto la promessa che Dio aveva fatto ad Abramo,
ed era stata rinnovata a Isacco, di una grande nazione.
Celestino V o Esaù furono a
lungo le opzioni per identificare il personaggio del “gran rifiuto”. Tuttavia
nell’Ottocento si assiste ad un interessante serie di nuovi nomi da accostare a
questo personaggio. Tra questi spunta anche il nome di san Filippo Benizi
(+1285).
Statua di San Filippo nella chiesa
della SS. Annunziata di Firenze.
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Anni più tardi, nel 1968 gli
studi di un altro padre dell’Ordine dei Servi di Maria, Eugenio M. Casalini
(+2010), hanno posto in evidenza, sulla base di documentazione archivistica
dell’amministrazione del convento di Santa Maria di Cafaggio in Firenze oggi
Santissima Annunziata, una serie di contatti tra la comunità dei frati del
tempo e la cerchia delle amicizie politiche e familiari del poeta [2].
Detto questo però, non appare
possibile sostenere l’affermazione che accosti san Filippo all’uomo del “gran
rifiuto”. Anzitutto, in linea temporale ci si può chiedere come potesse il
“rifiuto” di Filippo al papato avere più presa nella memoria di Dante rispetto
alla “rinunzia” di Celestino V. Infatti se l’episodio che riguarda Filippo va
ascritto agli anni del Conclave di Viterbo ossia 1268-1271, la rinuncia di
Celestino V nel 1294 appare più vicina sia al momento in cui viene collocata
temporalmente la Divina Commedia, ossia il 1300, che al momento dell’inizio
della redazione vera e propria attorno al 1306-1307.
In secondo luogo, il “rifiuto”
di Filippo portò solo alla prosecuzione del Conclave che terminò con l’elezione
di Gregorio X (+1276), mentre la rinuncia di Celestino V aprì al pontificato di
Bonifacio VIII e in prospettiva, all’appoggio di quest’ultimo alla fazione
“Nera” dei Guelfi fiorentini contro i “Bianchi”, fazione di Dante stesso,
costretti all’esilio.
In terzo luogo, ci si può
chiedere come potesse Dante conoscere un avvenimento, quello del “rifiuto” di
San Filippo circoscritto in una redazione agiografica, quella della Legenda “Vulgata”, da collocare probabilmente
nella seconda parte del secolo XIV, e pertanto forse lungamente veicolato da
una tradizione orale. Senza dimenticare che l’episodio stesso trascritto nei
paragrafi 15-16 non è comune nei vari manoscritti che riportano la Legenda “Vulgata”.
Valga poi l’osservazione che
Dante pare confinare la sua attenzione sulla vita religiosa soltanto agli
Ordini dei Minori e dei Predicatori. I Canti XI e XII del Paradiso dove prima
Tommaso d’Aquino, frate predicatore, e poi Bonaventura da Bagnoregio, frate minore,
fanno gli elogi del fondatore dell’opposto Ordine e deprecano la decadenza
dell’ordine d’appartenenza, esemplificano la centralità di questi due ordini
religiosi nell’universo di Dante, mentre le altre famiglie religiose risultano
di poco conto. Di conseguenza resta da chiedersi quali figure e quale influsso
potesse avere un Ordine di ridottissime dimensioni, come i Servi di Maria,
sulla stesura della Divina Commedia.
Resterebbe ancora la
possibilità di leggere, sulla base degli scritti agiografici dei Servi di Maria,
alcune azioni della vita di san Filippo sul piano della “viltà” che Dante
intende in contrapposizione alla “magnanimità” dell’animo: ossia per vile si
intende l’uomo che degno di compiere grandi cose, se ne ritiene non all’altezza
e vi rinuncia. In tal senso una rilettura dei paragrafi 9-12, riguardo alla
scoperta della grande cultura di Filippo e delle frequenti richieste di essere
esonerato dall’incarico di priore Generale, potrebbe suggerire tale ipotesi. Tuttavia
tali ipotesi va superata notando che lo stesso Filippo spesso sottopone la sua
volontà alle preghiere dei confratelli verso i quali si piega con obbedienza.
Concludendo vogliamo ancora
indicare come riferendosi ad un altro brano della Divina Commedia in cui si poteva avanzare un ipotesi di convergenza
tra la descrizione dell’Annunciazione nel X Canto del Purgatorio (Purgatorio X, 34-35) e l’immagine
affrescata ancora oggi visibile nella Santissima Annunziata il Casalini notava
come in merito si restasse «nel campo di quelle ipotesi che senza essere
puramente fantastiche hanno però il difetto di mancare di un dato sia pur
minimo di concreta documentazione» [3].
Valida per l’immagine del Purgatorio,
tale affermazione non risulta riapplicabile nell’ipotesi del Morini di accostare
l’uomo del “gran rifiuto” a san Filippo Benizi in quanto crea ipotesi
decisamente labili al confronto con le figure classiche, e decisamente più
consistenti, offerte dalla critica letteraria sul tema. Di conseguenza ancora
con il Casalini dobbiamo convenire «ma che Dante avesse pensato a san Filippo
Benizi nella citata terzina dell’Inferno, è una congettura destinata a rimanere
tale come le altre escogitate sull’argomento» [4].
fra
Emanuele M. Cattarossi
albatrosm2013@gmail.com
[1] In
particolare si fa riferimento a Dante e i
Servi di Maria in «L’Addolorata», Firenze, 1921, pp. 44-51 e 133-135, entrambi
a cura di Linix pseudonimo di Alessio
M. Rossi. Lo stesso tornerà sull’argomento in un articolo dell’Osservatore
Romano del 24 agosto 1951 intitolato Ancora
del gran rifiuto?
[2] Si veda E. Casalini, Il convento di santa Maria di Cafaggio nella cerchia delle amicizie di
Dante, «Studi Storici OSM», 16 (1968), pp. 172-196.
[3] Casalini, Il convento
di santa Maria di Cafaggio nella cerchia delle amicizie di Dante, pp. 175-176.